Icona Madre di Dio della Passione
L'icona di carattere monumentale, in ottimo stato di conservazione, presenta la tradizionale iconografia della «Madre di Dio della Passione».
Dipinta su fondo oro, con i nimbi lavorati a bulino, la tavola è stata forse mutilata sui bordi inferiore e superiore, per essere adattata in una cornice o in una nicchia.
Agli angoli superiore si affacciano a sinistra e a destra rispettivamente l'arcangelo Gabriele (con la lancia, la spugna e il vaso di aceto), e l'arcangelo Michele (con la croce). Gli arcangeli hanno le mani velate, in segno di adorazione, come sempre avviene al cospetto della Teofania, cioè della manifestazione divina (ad esempio nell'icona del Battesimo di Cristo): in questo caso il significato è duplice, il riconoscimento che nel Bambino è presente il Dio-fatto-uomo, e che la passione è la manifestazione della potenza redentrice divina, che la croce cioè è il segno della resurrezione e della vittoria finale.
Il simbolismo della passione-resurrezione è presente anche nel Bambino, che perde il sandaletto nel gesto improvviso causato dal timore della passione, ma la cintura rossa (l'unico tocco di rosso vivo in tutta la raffigurazione ), simbolo dell'energia divina, colore degli abiti del Cristo risorto nelle tipologie più antiche dell'Oriente cristiano.
Alla morte allude anche la tunica del Bambino, con i ricami le cui forme ricordano la decorazione del lenzuolo funebre, come viene dipinto fin dall'epoca Paleologa, ad esempio nelle raffigurazioni della Dormizione della Vergine. Il Cristo sofferente, umiliato nella morte è già tuttavia, nel contempo, il Risorto, che «con la morte ha calpestato la morte, donando la vita a quanti erano nei sepolcri» (come canta la liturgia bizantina della notte di Pasqua).
Il simbolismo dei colori è di fondamentale importanza nell’icona: in questa raffigurazione, secondo i canoni consueti, l'arcangelo Gabriele porta le vesti degli stessi colori del Cristo adulto, i colori dell'incarnazione: la tunica rossa (degno di divinità) e il manto blu (segno dell'umanità) infatti stanno a significare che Dio si è rivestito della condizione umana per salvare, assumendola, l'umanità. La Madre di Dio ha le vesti dei colori opposti: il manto rosso porpora, segno della dignità divina, ricopre la tunica blu della condizione umana.
Da ultimo l'oro, colore dei colori, simbolo della luce incerata, divina, della realtà trasfigurata, nell'icona gioca un ruolo dominante: steso in fogli sul fondo, lavorato a bulino sui nimbi, steso nella sottilissima trama dell'assist sulla veste del Bambino, inserisce le figure nell'atmosfera dell'eternità, le investe del riflesso del divino, le rende partecipi della gloria ultima. Sempre l'oro ricama sul manto della Madre di Dio tre stelle (nell'icona in esame una è nascosta dal nimbo del Bambino), antichissimo simbolo siriano della verginità.
Le iscrizioni che si leggono sull'icona sono quelle tradizionali: le iniziali della Madre di Dio e degli arcangeli (negli angoli superiori), di Gesù Cristo (a destra del nimbo del Bambino); manca invece l'iscrizione che commenta il significato dell'icona, generalmente apposta sul lato destro.
Nell'insieme ci troviamo di fronte ad un’opera assai pregevole, che si colloca nell'alveo delle opere di Andrea Rizo e scuola, e costituisce un prezioso tesoro spirituale oltre che artistico.
Considerando la storia dell'icona e il mondo spirituale in cui essa nasce, non si può non ricordare che l'icona nasce dalla preghiera e per la preghiera, è arte della Chiesa (tant'è vero che gli artisti non si firmano o firmano «icona dipinta per mano di…») ed è indissolubilmente legata alla liturgia, di cui non costituisce solo l'illustrazione ma una parte integrante.
La madre di Dio della Passione
Nella tradizione della Chiesa dei primi secoli, l'icona (tavola in legno dipinta con colori a tempera) costituisce un
elemento importantissimo nella vita di fese e di preghiera dei cristiani.
L'Antico Testamento è caratterizzato dal divieto di raffigurare Dio: l'unica immagine di Dio plasmata dal popolo ebraico è
il vitello d'oro, cioè appunto l'idolo, il dio menzognero che si oppone al Dio vivo e vero. Nel peccato originale l'uomo, creato
a immagine (in greco «eicon», cioè letteralmente icona) e somiglianza di Dio, aveva calpestato e deturpato in sé questa immagine,
e non era più degno di contemplare il volto divino. L'Incarnazione di Cristo restituisce dignità all'uomo, gli rende il suo volto
e lo reintegra nella figliolanza di Dio. In Cristo l'uomo contempla se stesso, così come Dio l'aveva creato il primo giorno, e
scorge il proprio destino.
L'icona è appunto espressione dell'Incarnazione di Cristo, rende la visibilità del Dio che «è venuto ad abitare in mezzo a
noi», tant'è vero che la prima icona di Cristo si chiama «Volto di Cristo non dipinto da mano d'uomo»: secondo la tradizione e un
lino si cui Cristo stesso impresse i proprio lineamenti (come il velo della Veronica in occidente). Probabilmente questa
tradizione è legata alla Sindone, che rimase per secoli esposta alla venerazione dei fedeli in una chiesta di Costantinopoli,
ripiegata in modo tale da lasciar vedere il volto di Cristo.
L'Icona della Madre di Dio
L'icona, in quanto espressione del mistero dell'Incarnazione di Cristo, tradizionalmente non veniva considerata
semplicemente arte sacra, ma una fonte della Rivelazione quasi alla pari con i Vangeli («Quello che il Vangelo ci dice con le
parole, l'icona ce lo svela attraverso le linee e i colori», dicevano i Padri della Chiesa); per questo più di un Concilio
Ecumenico trattò temi e problemi collegati all'icona, definendo dei «canoni», cioè delle tipologie secondo cui raffigurare i
vari personaggi.
Una delle tipologie più antiche e venerate della Madre di Dio è l'«Odigitria» (dal greco «la Guida»), in cui la Vergine
sorregge su un braccio il Bambino, indicandolo con l'altra mano come «verità, via e vita». In tal modo la Vergine si fa guida
del popolo cristiano verso Cristo, che a sua volta, anche se rappresentato secondo proporzioni infantili, è già il Maestro e il
Signore.
La serietà dei volti, l'espressione mesta e afflitta della Vergine nel presentare il Figlio alludono alla passione accettata
da Cristo e dalla Madre di Dio: il «fiat» di Maria, pronunciato nell'Annunciazione e ripetuto ai piedi della croce, è l'inizio
della salvezza dell'umanità e della creatura nuova.
La bellissima icona della «Madre di Dio della Passione» della chiesa parrocchiale di Olera, che riprende fondamentalmente il
tipo della Vergine Odigitria, testimonia la profondità e la bellezza della fede cristiana, e anche l'unità delle tradizioni che
ci legano all'Oriente cristiano. Infatti l'icona, che a partire dal Rinascimento viene dimenticata nel mondo occidentale, nasce
originariamente come patrimonio comune della Chiesa indivisa, esprime la fede della Chiesa universale nella divinità e
nell'umanità di Cristo. Oggi il recupero dell'icona è uno dei segni più belli della tensione all'unità, della domanda a Cristo
perché la sua gloria si manifesti nel mondo, perché si riveli «Cristo tutto in tutti».
Cenni storici
La chiesa parrocchiale di Olera (Bg), costruita in onore di San Bartolomeo Apostolo nel 1471, è ricca di tesori d'arte,
tra cui in primo luogo il grande polittico di Cima da Conegliano, collocato sull'altare maggiore.
A fianco dell'altare sinistro, dedicato alla Vergine, si trova un'altra notevole opera d’arte, solo recentemente studiata e
identificata con precisione da uno dei massimi esperti di iconografia, il prof. Adol'f Nikolaevic Ovinnikovdel Centro di
restauro scientifico I. Grabar' (Mosca), durante un suo soggiorno presso il Centro Russia Cristiana si Seriate, nel maggio 1993.
Anche se è abbastanza semplice identificare l'opera per tipologia e stile pittorico come un'icona della «Madre di Dio della Passione», di scuola veneto-cretese, le circostanza del suo arrivo e della sua collocazione nella parrocchiale di Olera restano un enigma, come del resto per il polittico di Cima da Conegliano.
Un punto di riferimento ci è offerto a questo proposito dalle relazione di due visite pastorali; la prima, più antica, risale al 4 ottobre 1547, con il vescovo Vittore Soranzo, e in questa occasione viene fatto tra l'altro un inventario dei beni raccolti in chiesa e nella sacrestia, dove si legge a proposito della chiesa di san Bartolomeo: «satis decenter constructa, cum tribus altaribus et cum singula icona pulchra» (il corsivo è mio). L'aggettivo «singula» fa pensare che non si tratti del polittico, opera al contrario composita.
Lo stesso rilievo viene fatto in occasione della visita di San Carlo Borromeo, il 22 settembre 1575, che scrive nella sua relazione di aver trovato sull'altare maggiore una grande icona dorata e ornata («iconam magnam ornatam et inauratam» - il polittico di Cima da Conegliano?), e anche sull’altare della Madonna un'icona «dorata e ornata».
In tal modo l'icona doveva già trovarsi ad Olera senza dubbio nel 1575 (visto che è menzionata oltre al polittico), ma forse addirittura dal 1547 (del resto alcune ipotesi sull'acquisizione del polittico di Cima da Conegliano proponendo per una datazione posteriore alla stessa visita di san Carlo Borromeo, collegandola a fra Tommaso, frate cappuccino nativo di Olera, mendicante nel Veneto e nel Tirolo, che si trovò di frequente a Conegliano: questi nacque nel 1563 e lasciò Olera a 17 anni, nel 1580, cioè 5 anni dopo la visita di Borromeo).
Resta sempre l'enigma della provenienza dell'icona della Madre di Dio, della sua committenza e donazione (o acquisizione).
Gli antichi registri parrocchiali vennero bruciati all'epoca della peste e quindi non esistono documenti in riferimento all’icona
né al polittico. Un dato di carattere sociale ci permette se non altro di avanzare un'ipotesi: nei documenti storici ad Olera la popolazione è rilevata come molto attiva e laboriosa, in particolare vi sono provetti maestri tagliapietre, e censimenti tra il 1580 e il 1590 includono fra gli abitanti «quelli che praticano Venezia». Si può dedurre che un certo numero di artigiani lavorasse abitualmente a Venezia: niente di strano che questi maestri, evidentemente buoni conoscitori d'arte e ben pagati vista la loro perizia, avessero riportato con sé al paese l’icona della Vergine (opera di chiaro ambiente veneziano, come si vedrà dai raffronti) come espressione della loro devozione. Si spiegherebbe così l'enigma per cui, in un borgo di modeste dimensioni come Olera, nella chiesa di san Bartolomeo sono riunite opere d'arte di così grande valore artistico e tutte provenienti dall’area veneta.
Iconografia della Madre di Dio della Passione
L'ordine della tipologia della Madre di Dio della Passione, estremamente diffusa tra gli artisti del XVI-XVII secolo che
ripeteranno fedelmente lo stesso modello, era attribuita ad uno dei più importanti artisti della seconda metà del XV secolo,
Andrea Rizo Da Candia, pittore cretese; in realtà sono noti esempi più antichi di questi tipo, quali l'affresco del monastero di Arakos a Cipro, del 1192. E' quindi probabile che Rizo abbia codificato uno schema preesistente, più che essere l'autore di un nuovo tipo iconografico. Successivamente l'icona divenne molto popolare soprattutto in Italia, in area veneta, ravennate e meridionale, dove i «madonnari» la diffusero fra il XV e il XVII secolo. Godeva di grandissima venerazione anche a Roma, dove i religiosi agostiniani ne trasmisero la devozione ai redentoristi: nella chiesa di questi ultimi, invia Merulana, la Vergine della Passione divenne oggetto di grande venerazione popolare a partire dal 1865. I redentoristi propagarono il culto in tutto il mondo con il nome di «Nostra Signora del Perpetuo Soccorso»; non si sa per quale ragione il suo titolo originario fu così trasformato e abbandonato.
In effetti l'icona mostra ai lati del nimbo due angeli che recano gli strumenti della Passione; l'iscrizione in greco che si legge frequentemente sulle icone di questa tipologia, dice così: «Colui che un giorno aveva recato alla Purissima il lieto annuncio dicendole “Rallegrati”, ora le mostra i simboli della passione. Anche Cristo, rivestito di un corpo mortale, spaventato dalla morte che lo attende, contempla gli strumenti della Passione».
Se la Madre conserva lo stesso sguardo, dolente e pieno di fede, che è tipico della tipologia della Tenerezza (in cui il Figlio le rivela la sua passione e morte), qui il Bambino ha un moto di paura, e con un gesto commovente, colmo di confidenza, pone le sue manine nella mani della Madre, afferrandosi al pollice della Madre (per questo motivo in Russia l'icona viene anche chiamata popolarmente «Madre di Dio del pollice») quasi per cercare un rifugio che lo sottragga al dolore che lo attende.
Al tempo stesso il gesto della Vergine ricorda la posizione dell'Odigitria, che indica con la mano Cristo, «via, verità e vita»: in questo caso la mano accosta al gesto della testimonianza anche una sfumatura di tenera compassione e un moto di offerta: la Vergine acconsente al sacrificio del Figlio perché l'uomo sia salvato. Così, nel partecipare alla Passione di Cristo, la Madonna, nuova Eva, diventa la Madre di tutti i viventi.
Questa tipologia iconografica trovò diffusione anche in Russia (con il nome di «Strastnaja»), a partire da Niznij Novgorod, dove, in seguito al miracolo di una guarigione operato dall’icona, quest'ultima fu traslata nella chiesa dei santi Cosma e Damiano. Nel 1641 fu poi trasferita a Mosca per ordine dello zar Michail Fëdorovic; sul luogo in cui l'icona venne incontrata e salutata dalla solenne processione del clero e dei dignitari moscoviti (le porte di Tver'), si costruì in suo onore una chiesa e, nel 1654, il monastero femminile della Passione. Tuttavia la devozione per questa tipologia mariana è molto più diffusa in occidente: in Grecia ad esempio è ancora più rara che non in Russia (una delle poche copie, tra le più belle, è conservata nel museo di Atene).
La festa dell'icona ricorre il 13 agosto e la sesta domenica dopo Pasqua.
link:
Chiesa di San Bartolomeo Ap.
Polittico di Cima da Conegliano